Il giorno di San Valentino su Instagram è stato pubblicato questo post.
Raccapricciante, ma non è questo il punto. Il punto è che dietro un post su Instagram ci sono dei comunicatori. Per la precisione, alcune delle figure che si riconoscono all’interno del fitto elenco dei mestieri del digitale. 42 per Assolombarda, addirittura 180 per il sito confrontastipendio.it (ma questo DB non è accessibile).
È partito da questa considerazione il mio intervento nella giornata di studi “Il Digital Marketing tra semiotica, scienze sociali e comunicazione. Nuovi strumenti e nuove linee di ricerca” promosso dal Dipartimento di Comunicazione ed Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia qualche giorno fa, a cura della splendida Cinzia Bianchi.
Una giornata fitta e ricca di spunti, che meriterebbe di certo un seguito perché le riflessioni emerse potrebbero dare tanto sia al mondo dell’università, sia a quello della comunicazione “sul campo”.
Il mio contributo riguardava soprattutto gli aspetti legati alla formazione delle persone che, dopo gli studi, andranno a ricoprire uno dei 180 ruoli censiti. Queste persone provengono dai percorsi più vari: umanistico, scientifico, tecnologico, artistico, eccetera. E spesso, dopo, faranno mestieri che con questi percorsi non hanno molto a che fare.
Il fatto è che le discipline – accademiche e non – dalle quali nasciamo come professionisti diventano, nel tempo, dei punti di vista, dei frame, degli strumenti col supporto dei quali si sviluppano le professionalità specifiche. Per questo un filosofo può essere un bravissimo sviluppatore, un biologo diventare un imprenditore di successo e così via. Ogni disciplina di provenienza si adatta e si somma a tutte le altre cose che nel tempo si imparano e si usano.
La semiotica per me non ha fatto eccezione. Pur essendo, in termini razionali, un percorso per il quale la comunicazione era il naturale sbocco, io, che mi sono laureata un sacco di tempo fa, mi sono resa conto subito che i miei colleghi e i miei clienti non mi potevano capire, se la raccontavo così come l’avevo imparata. Per i miei interlocutori “semiotica” era qualcosa di oscuro, un divertissement per intellettuali. È così ancora oggi, a dirla tutta. E così ho iniziato a modellare un metodo, a rendere la semiotica irriconoscibile per loro ma funzionale per me. Lavoro ancora così: la semiotica è il mio punto di vista, non serve che altri lo sappiano. Il risultato di questa attività è una disciplina del tutto eterodossa, ma è un percorso consapevole.
Alla luce di tutto questo, mi sono fatta una domanda: quanto è importante che chi esce dall’Università sappia “fare” uno dei mestieri di quel lungo e affascinante elenco? Non molto, credo. Non molto perché nel momento in cui queste persone saranno uscite dall’Università questi mestieri si saranno moltiplicati. Non molto perché ognuna delle organizzazioni in cui poi si troveranno a lavorare dà un’interpretazione diversa dei vari mestieri. Non molto, perché spesso questi mestieri si basano su technicality che cambiano da un giorno all’altro. Insegnarli, pretendere che chi esce dall’Università sia in grado di farli subito, è impossibile. Il nostro ruolo può essere quello di creare i presupposti perché le persone possano farli, questi mestieri. E dunque dare loro un metodo e i principi con i quali potranno sopravvivere in un ambiente di lavoro.
Ho chiamato queste persone Mutanti. Sono quelli che escono studenti e si trasformano in professionisti. Quelli che ho avuto il privilegio di vedere in diretta mentre affrontavano questo passaggio, quelli che entravano come studenti nel Master che dirigevo e uscivano per venire a sedersi alla scrivania di fianco alla mia, in agenzia.
Accompagnare i Mutanti significa tre cose – nelle quali la semiotica può venirci in aiuto:
- Insegnare loro a imparare: fare in modo che abbiano un metodo, che sappiano porre domande, che abbiano gli strumenti per cercare le risposte, che sappiano dove cercare. Che siano curiosi, umili e strutturati quanto basta per far fronte alla valanga di informazioni da cui saranno investiti. Se in questa funzione ci faremo aiutare dalla semiotica, sapremo accompagnarli a distinguere il cosa dal come, a darsi un quadro di riferimento in cui operare. E poi farci quello che ci pare.
- Insegnare loro a saper stare: al mondo, al lavoro, con gli altri. Con dei pari, dei capi e dei senior. È un sapere trasversale, questo, un insieme di soft skill e capacità di decodifica che lavora in profondità e che è il più difficile da raggiungere. Anzi, in alcuni casi non si raggiunge mai. E qui la semiotica serve a decodificare il contesto, comprenderne le regole. E infrangerle, se si vuole o se è necessario.
- Insegnare loro che la comunicazione è una cosa importante. La comunicazione crea, modifica, amplifica opinioni: agisce in modo concreto sulla vita delle persone. Il digitale amplifica tutto, perché le persone lì parlano. È come una sessione di “due minuti di odio” permanente. Il fatto è che di là dai muri delle nostre agenzie ci sono persone, non target, non utenti, non personas. Con desideri, bisogni, sclere. E nonostante l’esperienza quotidiana, il digital marketing ha un approccio completamente razionale. Perciò i percorsi sono lineari, i comportamenti (immaginati) pavloviani. E invece la comunicazione è una cosa talmente seria che, al di là di chi la crea, è capace di creare sommosse per una gaffe tutto sommato innocua e un grande successo di pubblico per un brutto film. È una cosa talmente seria che a un certo punto ha sostituito la politica. La semiotica serve a capire le persone. Non i target. Non gli utenti. Non le personas.
Più o meno è quello che ho raccontato io.
Quello che mi sono portata a casa, invece, è una gran quantità di stimoli. Con alcuni temi ricorrenti: l’incontro tra discipline, la complementarietà tra approccio quantitativo e qualitativo, l’enorme utilità di una contaminazione più costante tra accademia e aziende.
E una gran voglia di tornare a respirare quell’aria.