Tempo fa ho avuto l’opportunità di partecipare alla giuria di un premio di comunicazione “storico”, che esiste da 17 anni. L’occasione è stata importante per fare, oltre a due chiacchiere sempre interessanti con gli altri giurati, qualche riflessione sullo stato dell’arte del web visto dalla parte di chi lo fa e, di conseguenza, attribuisce un riconoscimento ai colleghi. La giuria era formata da professionisti del web: molte agenzie e anche alcuni responsabili web di aziende. Una precisazione: il premio è organizzato per categorie della comunicazione (per il web ce ne sono due, Internet e Adv online), a loro volta suddivise in tipologie di progetti. Ad ogni progetto si attribuisce un voto generale e uno specifico per le singole professionalità che vi hanno contribuito. I giurati decidono all’inizio la o le (massimo due) professionalità per le quali esprimeranno un voto.
Prima riflessione: le tipologie di progetti – o la tassonomia
Una prima grande suddivisione è tra “Internet” in generale, che significa in pratica siti, e “adv online”, che significa campagne. Salta agli occhi una mancanza, quella del social, che in realtà viene trattato come una tipologia all’interno di adv.
Da cui la prima domanda: il social è davvero solo una modalità di adv? Secondo me, e nella mia esperienza, no. Social è uno dei modi per creare la presenza in rete di una marca, che può comprendere o no l’uso di social network (uno dei progetti rientrava in questo caso: una campagna di promozione di un servizio che ha coinvolto diversi stakeholder senza far ricorso a Facebook. La maggioranza dei giurati ha valutato che, non essendo stata condotta sui social media, non fosse adeguata a rientrare nella tipologia social. Parliamone) e che può essere o no finalizzata all’adv (è social anche la cocreazione, per dirne solo una, e, al di là della notiziabilità di un’operazione di questo genere non si può dire che sia sempre finalizzata all’adv.
La seconda domanda è più ampia: siamo sicuri che, per quello che è il web oggi, e cioè un ambiente più che un media, queste due categorie siano sufficienti? Anche in questo caso sono convinta che non sia così. Attraverso Internet si può vendere, informare, farsi conoscere, discutere, condividere. Come possono tutte queste attività diverse – per tipologia e per pubblici coinvolti – rientrare nella dicitura “Internet”, che valuta siti e tool, quindi strutture “chiuse” – oppure “adv online”, in cui sono presenti dai banner alle pagine Facebook?
Forse è tempo di rivedere le tassonomie del web, per lo meno nelle situazioni in cui di tassonomie c’è bisogno.
Seconda riflessione: le parole dell’agenzia
La valutazione di ciascun progetto era preceduta dalla presentazione che di questo progetto aveva fatto l’agenzia o l’azienda che lo aveva candidato. Mi sono sgorgate lacrime di commozione. Ho rivisto parole che passavano sulla mia scrivania nel 1998, come se nel frattempo nessuno avesse avuto il tempo di adeguarle agli anni che sono passati.
Alcuni esempi che, ne sono certa, tutti i professionisti del web si vedono davanti più volte nella loro vita lavorativa:
- “Un’esperienza immersiva” – nel 2001 avevo come cliente un’azienda alimentare molto importante. Il mio brief ai creativi, come strategist, fu conciso e “off the records”: “quando entro in questo sito mi devo sporcare la camicia di sugo”. Ovviamente non era vendibile in questi termini (benché molto efficaci), per cui al cliente venne venduto come esperienza immersiva. Prima e dopo di questa, negli stessi anni ho venduto innumerevoli altre esperienze immersive, per automobili, comunità, persino ecommerce. Ma a un certo punto ho smesso di chiamarle così. Una volta persino Word mi disse che era un termine logoro e abusato.
- “Fortemente impattante”, “emotivamente coinvolgente”, “uso emozionale delle immagini”, “presentazione accattivante” – in una parola, bello da vedere. La sensazione è di avere, tanto tempo fa, travestito l’ovvio con una patina culturale fatta di parole roboanti, e di non essere più stati capaci di vedere quello che c’era dietro – l’ovvio, appunto.
- “Soluzioni tecnologiche innovative” – qui si aprirebbe tutto un capitolo sull’innovazione, su cosa è e cosa non è innovativo. Per me innovativo è qualcosa che cambia la vita ai fruitori e anche ai creatori. È un cambiamento nel processo, anche, purché sia percepibile. I blog, quando sono usciti, erano innovativi: coniugavano la pubblicabilità e la leggibilità dei siti con l’estemporaneità dei newsgroup, consentendo a chiunque di diventare editore proprio come un’azienda. Flash era innovativo, per chi programmava e per chi visitava il sito. Eccetera. Tuttavia non è sull’innovazione che volevo concentrarmi, ma proprio sulle parole. Sapere che da quindici anni si continua ad usare la stessa terminologia sarà senz’altro rassicurante per qualcuno, ma personalmente mi fa un po’ ridere.
- “Creare engagement sulla comunità (degli investitori, dei consumatori, degli appassionati, ecc.)” – anche qui, concentriamoci solo sulle parole. E soprattutto sulla frequenza con cui si usano. Ogni sito è finalizzato a questo, non ce ne siamo accorti?
Alla fine, vista una presentazione, viste tutte.
Le parole sono espressione del pensiero. Quando non si evolvono vuol forse dire che non si è evoluto neanche il pensiero? Facciamoci qualche domanda (e diamoci qualche risposta).