Nella home page del mio sito ho scritto:
“La comunicazione è una cosa seria. Crea e modifica la nostra cultura, la nostra percezione della realtà, il nostro modo di essere cittadini. Le persone che siamo.”
L’ho scritto perché ci credo, perché negli anni ho visto la cultura modificarsi più volte e la comunicazione ricoprire un ruolo portante in questi cambiamenti.
L’ho anche detto, lo dico ai clienti, a costo di farmi prendere per la moralista di turno. Per esempio nel 2019 ho partecipato a una giornata di studi semiotici all’Università di Reggio Emilia (ne ho parlato qui). Il mio intervento si chiudeva con un’affermazione più e più volte sentita: “non salviamo vite umane”. Seguiva l’immagine di una corona di fiori in mare, il segno di uno dei tanti naufragi di migranti.
Che cosa c’entra la comunicazione? C’entra nella misura in cui i migranti sono diventati un pericolo grazie alla comunicazione di una certa parte politica.
Ecco, quella comunicazione, la comunicazione politica, è assolutamente consapevole della sua capacità di trasmettere e far assimilare un punto di vista destinato a diventare cultura. Quella comunicazione ha definito una strategia e quindi implementa tattiche finalizzate a tenersi stretto e accrescere un elettorato. Lo stiamo vivendo oggi: si lavora su azioni piccole (i nomi dei ministeri, per esempio, ma anche le leggi come quella sui rave) su cui si fa fatica a intervenire proprio perché piccole e, in fondo, figlie di un certo pensiero, ma tecnicamente definibili come tattiche, per seguire indisturbato (e indisturbabile, alla fine) su una strategia che di piccolo non ha proprio niente, poiché l’obiettivo è esattamente quello di incidere su una cultura.
Una questione di metodo, non di merito.
Ma nel momento in cui la comunicazione ha una rilevanza sociale così importante, ne consegue che essa debba assumersi delle responsabilità. E l’assunzione di responsabilità in un’area collettiva implica che alla base ci sia una qualche etica.
In un illuminante articolo in cui riporta un intervento tenuto nel 2012 presso il Ministero dello Sviluppo Economico, dopo aver rilevato come la comunicazione commerciale contribuisca alla costruzione dell’immaginario collettivo, Massimo Guastini dice:
“La progressiva scomparsa dell’etica nelle dinamiche professionali del settore pubblicitario, nelle remunerazioni, nei rapporti con i dipendenti, ha da troppo tempo inevitabili ripercussioni sulla qualità dei contenuti che mettiamo on air e online. Ecco allora che un “sistema pubblicità” privo di etica diventa un problema di rilevanza sociale. Ecco che un lavoro delicato, per le responsabilità morali e sociali che implica, rischia di non essere più né un mestiere né un insieme di tecniche e competenze”
L’assenza di etica incide sulla qualità del lavoro, dunque. E se il lavoro è la comunicazione, abbiamo un problema, perché le conseguenze si vedono in termini di influenza sulla cultura della società nella quale opera l’agenzia (o l’azienda cliente, perché alla fine la comunicazione appartiene a entrambe: una la produce, l’altra la approva e la fa propria).
Ed ecco che il tema si allarga ancora:
- La comunicazione crea (accresce, abilita, fa emergere) cultura;
- Per una cultura sana, la comunicazione deve essere etica;
- Per comunicare eticamente, le figure professionali che producono comunicazione devono essere consapevoli del ruolo di quanto producono in termini di rilevanza sociale;
- Quindi non basta che siano preparate dal punto di vista del mestiere, ma è necessario che siano responsabilizzate rispetto alle conseguenze del loro agire professionale;
- Un agire professionale consapevole e responsabile sarà tale sia per quello che produce che per quanto riguarda la sua identità. Se la mia comunicazione (quella che produco come agenzia o quella che trasmetto come azienda) parla di quanto sono orgogliosa di partecipare al Pride, va da sé che al mio interno l’inclusività (santo cielo, ma non c’è un’altra parola per esprimere il concetto?) sia un cardine delle mie politiche sulle risorse umane. Volendo, si chiama anche questa sostenibilità – che no, la sostenibilità non è solo ambientale;
- Agenzie e aziende sono coinvolte in questo percorso allo stesso modo e con lo stesso livello di responsabilità. (Una delle cose che mi hanno stupita del #metoo di queste ultime settimane, pensandoci bene, è il silenzio delle aziende, dei clienti. E allora complimenti al lavoro diplomatico-commerciale che evidentemente stanno facendo le agenzie coinvolte presso i loro clienti).
Stiamo ancora parlando di comunicazione? Sì.
Lo vediamo nella comunicazione a cui siamo esposti come utenti? A volte. A volte succede e basta.
È così nelle agenzie e nelle aziende? Speriamo.
Lo insegniamo a chi poi farà lo strategist, il creativo – o qualunque altro mestiere nel mondo della comunicazione? Poco.
Tornando all’esempio della politica, la sensazione è che, al contrario di quella, dove c’è una grande consapevolezza, in agenzie e aziende ci sia un velo sempre più opaco sulla strategia e si proceda su singole azioni slegate. Se le azioni verso l’esterno solo slegate, a maggior ragione lo saranno quelle verso l’interno: perché, si sa, sull’interno si lavora nei ritagli di tempo tra un’emergenza e l’altra, oppure quando scoppia un bubbone. Sia i ritagli di tempo che gli scoppi di bubboni non sono bei momenti per elaborare strategie, al massimo si cerca di fare una bella operazione di facciata, con poca spesa e molta resa, o di mettere delle pezze.
Forse è il caso di tornare a parlare di strategia. Quella alta, non la cassetta degli attrezzi per l’hype del momento. Quella che ti dà le indicazioni su come comportarti quando scoppia il bubbone di cui si parlava, ma soprattutto quella che ti rende consapevole delle tue responsabilità culturali, civiche, sociali. E, alla luce degli ultimi eventi, credo che sia un dovere, non un vezzo.
