Da queste riflessioni è nata una nuova avventura, Futuro Anteriore, che sta vedendo la luce proprio adesso. Ne ho parlato in questa pagina, ma siamo in evoluzione.
A un certo punto della vita professionale, uno inizia a farsi delle domande. Su dove sta andando, dove vuole arrivare, come ci sta andando, che cosa gli farà capire che ci è arrivato.
Credo che assecondare questi momenti di verifica sia molto importante per continuare a lavorare serenamente. Credo anche che razionalizzarli possa aiutare. Ed è quello che ho fatto.
Step 1: il tempo.
All’inizio della vita lavorativa si vende il proprio tempo. Che non è un tempo vuoto, da misurare in ore/uomo, ma un tempo che serve ad imparare, ad acquisire il sapere e il saper fare di qualunque mestiere. E mi piace parlare proprio di mestiere invece che, per esempio, di professione, perché il “mestiere” è quello che, da un certo punto in poi, ci permette di trovare soluzioni, unire i punti, passare allo step successivo. In questo periodo siamo accumulatori seriali: portiamo a casa informazioni, osservazioni, pratiche. Impariamo cose e impariamo anche a imparare e a interpretare il mondo in cui ci troviamo.
Sapendo bene di dire una cosa impopolare, pensare che sia la scuola o l’Università a introdurci a tutto questo ha secondo me poco senso. Quello che dobbiamo chiedere alla scuola e all’Università è insegnarci a imparare, o, per dirla come ce la raccontava Eco, insegnarci dove trovare le cose che ci serviranno. Qualunque tipo di formazione, se non è fatta all’interno dell’organizzazione nella quale poi lavoreremo davvero, è destinata a essere accademica: è nella natura della formazione trasmettere nozioni e competenze basandosi su una situazione ideale. Che però nella vita vera non esiste quasi mai. Quante volte a una certa job description corrispondono due figure che fanno esattamente le stesse cose, in due organizzazioni diverse? Quasi mai. A meno che, ovviamente, uno non faccia un lavoro come il medico o l’ingegnere, la parrucchiera o l’elettricista: lì il “mansionario” è universale, le cose si fanno così e basta e chi fa quel lavoro deve sapere/saper fare tutto quanto è previsto da questo mansionario. Ma per tutto il resto, lo sterminato mondo dei servizi è disseminato di lavori con nomi fantasiosi il cui contenuto è tutto da costruire sulla base del posto in cui ti trovi.
Il tempo, dicevo. Non a caso questa è l’epoca in cui si fanno le notti, si lavora durante i week end, non si hanno orari.
Step 2: la competenza.
C’è un momento in cui capiamo che le cose che riguardano il nostro lavoro noi le sappiamo fare. In mestieri che si evolvono alla velocità della luce come il mio, in realtà questo momento non viene praticamente mai, in senso assoluto. Ci si avvicina molto, però, perché si diventa consapevoli di sapere dove andare a cercare le novità e si hanno gli strumenti per metterle subito in opera.
È il momento in cui smettiamo di vendere il nostro tempo e veniamo pagati per la nostra competenza.
Non a caso è il momento migliore, dal punto di vista della crescita personale, per diventare freelance o imprenditori: conosciamo un mestiere, ne maneggiamo bene i meccanismi all’interno di un’organizzazione, per cui possiamo anche salutare, ringraziare e andarcene dal posto in cui ci troviamo, prendendo il largo per conto nostro. Purché non sia troppo presto, però: una cosa è saper fare un lavoro, un’altra mettere in piedi un’impresa. Se non c’è stata un’epoca in cui hai imparato a stare dentro a qualcosa, qualunque sia la tua idea di impresa sarà faticosissimo farla crescere (breve parentesi: in Italia ci sono circa 9.000 startup, e dunque il problema non è mettere in piedi un’azienda; si calcola però che 8 su 10 falliscano prima dei 2 anni di vita, e dunque la cosa veramente difficile è farla sopravvivere, quest’azienda. Su quali siano i motivi di questa mortalità ci sono montagne di studi, ma è un’altra storia). A prescindere, figuriamoci se neanche ci sei mai stato prima, in un’azienda. (Altra parentesi e altra storia: iniziare la propria vita lavorativa mettendosi in proprio è una sciocchezza. Piuttosto ti ammazzi di stage, ma almeno saprai che cosa ti serve a stare in piedi. Chiusa parentesi).
Competenza, dunque. Sai e sai fare, sei affidabile, diventi senior, qualunque cosa significhi. Se sei proprio un fuoriclasse diventi anche amministratore delegato. Ogni tanto fai le notti, ogni tanto ti porti il lavoro a casa, ma in generale impari anche a gestire l’ansia del “devo fare tutto io”. E se non impari hai un problema.
Step 3: l’esperienza.
Ho fatto la mia gavetta. Ho fatto la mia carriera. So e so fare cose. Ma davvero mi immagino a continuare a fare queste cose per tutta la vita? Magari no. O per lo meno non nello stesso modo. Il fatto è che in questo periodo la cosa che possiamo vendere meglio è l’esperienza.
Parola che non ha molto successo in quest’epoca – ma già si inizia a intravedere qualche spiraglio, qualcuno ne parla, ma banalmente basta farsi due conti: a questo stadio della carriera le persone hanno davanti ancora 20 anni di vita lavorativa attiva, il che significa un reddito, capacità di scelta e potere di acquisto. Per 20 anni.
Buttare via tutto questo sarebbe – è – uno spreco. Questa fase è quella in cui si sanno unire i puntini, si può attingere a una casistica ampissima per risolvere i problemi quotidiani. Di più: si entra in una riunione e si sa già come andrà a finire. Davvero a tutto questo non va riconosciuto un valore?
È il momento di far crescere qualcun altro. Piuttosto che, appunto, entrare in una riunione che so già come andrà a finire, è meglio che una persona più giovane entri e impari come va a finire. Al posto mio.
In aula, in ufficio, da un palco: non importa come, ma diventare dei caregiver professionali in questo periodo è un modo prezioso per ottenere diversi risultati.
Come prima cosa, la più immediata, si offrono strumenti preziosi a persone che non li hanno o li usano in modo incompleto. Non solo: a volte quello che manca è la capacità di trovare una soluzione che vada fuori dall’esperienza quotidiana, se questa è ben rodata. La vicinanza di qualcuno che altre volte ha dovuto pescare altrove per trovare soluzioni alternative e all’apparenza introvabili può essere la chiave di volta per mille situazioni critiche. Il risultato immediato di questo tipo di accompagnamento è che queste persone diventeranno, grazie al nostro contributo, professionisti efficaci.
Un altro tema è la crescita delle organizzazioni stesse. Una start up è generalmente piena di energie e di speranze ma povera di esperienza (stavo per dire “e di soldi”, ma non è sempre vero). Far crescere un’azienda, di qualunque dimensione essa sia e voglia diventare, è sì questione di bravura (nel senso più ampio possibile), di dedizione, di visione, di metteteciquellochevolete, ma è anche questione di sguardo sull’azienda stessa: individuare le opportunità e la loro percorribilità, capire le persone, prevedere gli sviluppi, sono cose che richiedono anche altro. Per esempio la capacità di capire quando qualcuno è a disagio e questo disagio può diventare un problema per gli altri. La sensibilità di mettere le persone giuste nel punto giusto per quello che vogliono e vogliono diventare, non solo per quanto le paghiamo. Il buon senso di pagarle il giusto, queste persone, perché senza abbiamo persone demotivate che ci lasceranno alla prima occasione. La visione sulle politiche commerciali: che differenza c’è tra una politica commerciale aggressiva e una suicida? O quando, al contrario, è eccessiva? Gli aspetti squisitamente organizzativi: chi deve fare cosa? Come? Perché?
Infine ci siamo noi. In questa fase è molto facile scoraggiarsi, per i motivi di cui sopra. La demotivazione è dietro l’angolo e ci può rendere pesante un momento della nostra vita professionale che invece durerà ancora a lungo. Perciò diventa essenziale uscire dai loop tossici e crearne di nuovi, diversi e appaganti. Che non significa uscire dalla comfort zone: personalmente ne ho sperimentate assai poche, di comfort zone, per cui credo che fondamentalmente siano l’invenzione malefica di qualcuno che ha trovato un buon filone di formazione sulla “crescita personale”. Perché in fondo la comfort zone è una conquista, e allora perché farsi sfuggire l’occasione per trovarne una nuova?