“La recitazione è relazione. Ascoltati e ascolta l’altro” è quello che ha ripetuto in aula tante e tante volte Brunella Andreoli, la mia insegnante di recitazione.

Quest’anno mi sono fatta questo regalo: un corso di recitazione. E ho fatto bene, perché ho imparato diverse cose, alcune delle quali, che qui provo a riassumere, hanno un’attinenza diretta con il mio lavoro di strategist, e più in particolare con l’area dello storytelling.

Lo storytelling di brand e il copione

Va da sé che lo storytelling di un brand non abbia molto a che fare con un copione. Quando parliamo di storytelling ci riferiamo infatti a quell’insieme di regole che siamo chiamati a seguire tutte le volte che parliamo a nome del brand: non una storia, dunque, ma piuttosto le linee guida, i principi di una storia, che deve poi essere elaborata di volta in volta a seconda del canale – per esempio, contenuti social o spot tv – facendo in modo che, dietro, il brand rimanga sempre riconoscibile.

In questo senso, lo storytelling di un brand si può condensare in un claim (“Non c’è una spesa che non sia importante” di Esselunga, da cui nascono gli spot della pesca, della noce e della carota) o in un posizionamento (“Just Do It” di Nike, che nella sua spinta all’azione dà vita a tutta la comunicazione del brand), oppure non essere dichiarato in modo così visibile e prendere semplicemente vita in tutte le forme che il brand vorrà dargli (è il caso di Patagonia).

Ma allora, se lo storytelling non è una storia, cosa può avere in comune con un copione teatrale o con una sceneggiatura cinematografica? Ha in comune una cosa importantissima: la strutturazione delle regole.

Le regole dello storytelling

Quali sono le regole che dobbiamo seguire – anzi, creare – ogni volta che attribuiamo uno storytelling a un brand? Saranno, innanzitutto, quelle relative alla personalità del brand: la sua storia, il suo carattere, i suoi obiettivi, il suo tono di voce. Poi quelle che riguardano i pubblici con i quali il brand vuole entrare in comunicazione e l’insight su cui intende lavorare.

Infine, la relazione, di cui parlavo all’inizio. Un attore deve prevedere sempre almeno due relazioni, quella con il pubblico e quella con gli altri personaggi. Allo stesso modo, il brand deve prevedere una relazione con i suoi pubblici e una relazione con il mondo esterno, il mercato, i competitor, la cultura nella quale si trova e opera.

Vediamo come si può arricchire questo lavoro prendendo in prestito alcuni elementi che appartengono al mondo dell’attore. In particolare, farò riferimento a un libro che parla d’altro ma non sa di dire cose utili alla comunicazione dei brand. Il libro è Il potere dell’attore. Tecnica ed esercizi, di Ivana Chubbuck (Audino, 2016).

L’obiettivo complessivo

In una storia da raccontare in teatro o al cinema c’è sempre un obiettivo complessivo. È lo strumento che fornisce alla storia un inizio, uno svolgimento e una fine. Definisce il viaggio dell’attore e del pubblico. Tutti gli altri strumenti sono funzionali a questo obiettivo.

Non è un obiettivo che riguarda la trama, però, perché è molto più profondo. Riguarda il personaggio e risponde alle domande di base di chiunque: che cosa desidera il mio personaggio dalla sua vita? Qual è il suo bisogno primario?

L’obiettivo complessivo motiva il personaggio, lo fa muovere. E per questo è fondamentale per infondere all’azione un senso di urgenza. Ed ecco alcuni esempi di obiettivo complessivo:

  • Trovare l’amore
  • Ottenere potere
  • Restare vivo

E così via. Tutte cose fondamentali, che hanno a che fare con l’esistenza stessa del personaggio. La trama non c’entra: la trama è il percorso che il personaggio compirà per raggiungere il suo obiettivo.

Ma ecco la prima manifestazione di relazione: l’obiettivo complessivo deve essere espresso in modo da generare un cambiamento nella vita del pubblico, necessario per la sua sopravvivenza (nel ruolo di pubblico, naturalmente) fisica o emotiva. Solo così il pubblico potrà immedesimarsi nella storia, vivendo il successo del personaggio come un suo successo.

Ma cosa c’entra tutto questo con i brand? Beh, immaginiamo di avere un brand al posto di un personaggio. In questo caso l’obiettivo complessivo corrisponderà, più o meno, alla sua vision o al suo purpose, o comunque a un bisogno molto alto. Bisogno che non potrà vivere da solo, ma che potrà essere raggiunto a patto di entrare in relazione con il pubblico: anzi, di farsi riconoscere dal pubblico.

L’obiettivo della scena

Una volta definito l’obiettivo complessivo, il personaggio dovrà individuare l’obiettivo della scena. È la spinta che determina la comunicazione tra i personaggi in una scena specifica, il percorso da seguire per raggiungere l’obiettivo complessivo, basato sul dialogo e sul dinamismo.

Alcuni esempi di obiettivi di scena che facilmente possiamo riconoscere nella nostra vita di spettatori:

  • Far sì che tu mi ami
  • Far sì che tu mi dia un lavoro
  • Farti essere un mio alleato
  • Farti essere nel torto, così posso essere nel giusto

La cosa che hanno in comune questi obiettivi è che esigono sempre una risposta, coinvolgono sempre l’altro – in questo caso, l’altro o gli altri personaggi.

Portiamo l’obiettivo di scena sul piano del branding. La relazione qui non è più con un altro personaggio ma direttamente con il singolo esponente del pubblico. Rispetto al quale, lo sappiamo bene, il nostro obiettivo come brand non è semplicemente “far sì che tu mi compri”, ma può essere molto più raffinato: “far sì che tu mi creda”, “farti diventare un mio ambassador”, “far sì che il mio nome sia il primo che ricordi davanti allo scaffale del supermercato” e così via.

Questa, in termini di storytelling, è la prima regola che dobbiamo fissare, perché è quella che muoverà tutte le azioni successive.

Gli ostacoli

Sappiamo tutti che in ogni storia c’è un eroe che, per raggiungere il suo scopo, deve superare degli ostacoli. A maggior ragione questo sarà vero per il personaggio di una pièce teatrale o di un film. Ci sono ostacoli anche nelle storie apparentemente più banali, basta che a un certo punto della nostra storia, diciamo “Ma, intanto che le cose stavano andando in questo modo, ecco che…” o qualunque altra espressione che significhi la stessa cosa.

Gli ostacoli danno forza e intensità agli obiettivi, rendendo i traguardi più difficili da raggiungere. La vittoria è soddisfacente solo quando c’è la possibilità di fallire e la possibilità di fallire dipende dagli ostacoli.

In scena abbiamo tre tipi di ostacoli: fisici (per esempio dati da menomazioni, o dalla posizione sociale, o da stati mentali alterati e così via), mentali (come idee politiche, segreti, bugie e così via) e emotivi (problemi relazionali, personali, eccetera).

Se ci pensiamo, non è così diverso per i brand. Quando lavoriamo sull’individuazione dell’insight, la prima cosa che facciamo è proprio andare alla ricerca di quelli che, in un contesto diverso, potremmo definire ostacoli: il disagio rispetto a una certa situazione, la difficoltà di intraprendere un certo percorso, uno stigma sociale e così via, sono tutti fattori che prendiamo in considerazione quando lavoriamo sulla relazione tra un brand e il suo pubblico.

La sostituzione e gli oggetti interiori

Come superiamo gli ostacoli? Attraverso due elementi che fanno riferimento alla nostra vita interiore, anzi, alla vita interiore del pubblico. Che deve poter “sostituire” quello che vede in scena – o nel post, nello spot, nel video, ecc. – con qualcosa che gli è familiare perché gli fa provare le stesse emozioni, genera gli stessi effetti, nella sua vita reale.

Nel corso della vita si materializzano naturalmente dei veri e propri film dietro i nostri occhi quando parliamo e ascoltiamo. Queste immagini che “si svolgono come una pellicola” sono le associazioni che facciamo basandoci sulle nostre esperienze presenti e passate. Allo stesso modo, qualsiasi personaggio che interpretate deve vedere un film nella sua mente.

La stessa operazione deve essere compiuta nel momento in cui non abbiamo dei personaggi ma, per esempio, delle buyer personas. E la facciamo vivere attraverso battute e azioni. Che hanno a che fare, naturalmente, con il nostro brand.

L’antefatto

Nessuna storia, comunque venga raccontata, inizia da quello che vediamo o leggiamo. C’è sempre qualcosa che è successo prima che serve a inquadrare la situazione: una motivazione, un’origine, una situazione avvenuta prima. Un antefatto, insomma.

È l’antefatto che porta a certi obiettivi, che spiega per quale motivo il personaggio desidera così tanto qualcosa. Nel nostro caso, l’antefatto è contenuto nell’insight, se lo abbiamo pensato bene, perché racconta la situazione di partenza del pubblico al quale intendiamo rivolgerci, il bisogno – o comunque lo stato d’animo – nel quale si trova e a cui il nostro brand può dare una risposta.

Le domande per raccontare (il brand)

Questo percorso può essere sintetizzato ponendosi quattro domande:

  • Qual è l’obiettivo della mia presenza nel mondo? –> l’obiettivo complessivo / il DNA del brand
  • Cosa desidero? –> l’obiettivo della scena/l’obiettivo della storia che il brand intende raccontare
  • Perché lo desidero così tanto? –> gli ostacoli, la sostituzione, gli oggetti interiori, che suggeriscono un bisogno per raggiungere l’obiettivo della scena/l’insight
  • Perché lo desidero così tanto proprio in questo momento? –> L’antefatto / le circostanze in cui è maturato l’insight

Mi sono chiesta se questo percorso mutuato da un ambito diverso da quello dello storytelling di brand può essere effettivamente di aiuto o se costituisce solo una complicazione. Mi sono risposta che è un punto di vista diverso, un modo di pensare allo storytelling che nasce da una situazione in cui la storia è effettivamente la cosa più importante. E che rende più “rotondo” lo storytelling perché, tra le altre cose, lavora tanto sugli obiettivi e sull’insight, costringendoci a pensarli in una forma che obbliga a considerare l’aspetto della relazione con il pubblico.

Sfuggendo, quindi, alla banalità.

Lascia un commento